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Modello Organizzativo 231

Sempre più Clienti chiedono informazioni e, via via, si convincono della necessità di adottare un Modello Organizzativo 231 per proteggere il patrimonio aziendale nell’eventualità che un soggetto apicale ovvero un soggetto sottoposto ad altrui direzione e coordinamento commetta un reato rientrante tra quelli presupposto della responsabilità dell’ente/società.

Il tema è divenuto particolarmente sentito dopo che, alla fine del 2019, anche diversi reati tributari sono stati inclusi tra quelli che, appunto, comportano la responsabilità dell’Ente, oltreché naturalmente della persona fisica che lo ha posto in essere. Ed a maggior ragione la questione è divenuta di stretta attualità dopo la prima pronuncia resa dalla Corte di Cassazione penale (sent. n. 193 sez. III del 27.01.2022) la quale, nel rigettare il ricorso di una società avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame di Milano, ha confermato il sequestro preventivo nei confronti della stessa per la commissione del reato tributario di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.

La fattispecie, relativa a uno dei più noti operatori logistici internazionali, ha riguardato il ritenuto utilizzo di fatture soggettivamente fittizie emesse da altre società: sarebbero stati simulati contratti di appalto, che di fatto sono celavano contratti di somministrazione (illecita) di manodopera.

Al di là della rinomanza della vicenda, la contestazione di fatture soggettivamente fittizie è fenomeno molto ma molto frequente nella pratica, il contenzioso imponente e, sul piano interpretativo, in fortissima evoluzione. L’individuazione dei presidi idonei a ridurre, se non azzerare, il rischio che l’impresa sia coinvolta in una frode carosello è esercizio complesso ma estremamente importante, a protezione dell’azienda e di chi la rappresenta.

E’ certamente questa una attività tipica del nostro Studio, da sempre volto ad operare in prevenzione. 

Ristretta base azionaria senza pace

Pur essendo oramai consolidato, il meccanismo dell’accertamento da ristretta base azionaria presenta aspetti sempre nuovi e tutt’altro che scontati, come confermato dalla copiosa giurisprudenza in materia. 

 Come noto, detto meccanismo consente all’Amministrazione finanziaria di presumere che i redditi accertati in capo ad una società di capitali possano essere imputati, pro quota, ai soci, in proporzione alle quote di capitale sociale dagli stessi detenute; una sorta di meccanismo “per trasparenza”, che comporta l’obbligo, in capo al socio, di tassare un dividendo solo presunto. 

 Tra le questioni che meritano attenzione, ve ne sono tre particolarmente rilevanti.

 In primo luogo, va verificato se siano distribuibili solo i redditi per così dire “monetari” – quali quelli derivanti dalla percezione di ricavi (da cessioni di beni, ovvero da prestazioni di servizi) non tassati, o ancora dalle somme rientrate in conseguenza dell’utilizzo di fatture relative ad operazioni soggettivamente inesistenti -, ovvero qualunque reddito prodotto in capo alla Srl: per la tesi estensiva, si riscontra ad esempio Cass. 2224/2021, secondo cui anche un costo indeducibile, per esempio per difetto di inerenza, sarebbe comunque imputabile ai soci. 

 Un secondo rilevante problema consiste nello stabilire se la presunzione sia applicabile nella sola ipotesi in cui i soci della società accertata siano persone fisiche, ovvero anche società, a loro volta possedute da persone fisiche, comunque avvinte da un vincolo familiare (o comunque si tratti di pochi soci); anche in questo caso, la giurisprudenza (Cass. 2224/2021 già citata) abbraccia la tesi estensiva, con notevole dilatazione del perimetro soggettivo di applicazione della presunzione. 

 Infine, va verificato quali siano i confini della prova contraria che può essere offerta dal socio, prova che comunque appare diabolica, avendo ad oggetto un fatto negativo, ovvero la mancata percezione di ciò che l’Ufficio finanziario presume essere stato percepito. Al riguardo, la più recente e sensibile giurisprudenza, ammette la possibilità per il socio di dimostrare l’estreneità alla gestione societaria (Cass. 34282/2019).

 Si tratta di questioni complesse, che certamente esigono un approccio quanto mai approfondito, nell’ottica di assicurare la migliore tutela, avuto riguardo al quadro giurisprudenziale. 

 

Sponsorizzazioni, costi leggeri. La deducibilità anche in assenza di utilità e/o vantaggio

I costi di sponsorizzazione, ancorché non abbiano apportato un’utilità e/o vantaggio per l’incremento dell’attività imprenditoriale secondo un approccio di tipo quantitativo, sono comunque deducibili dall’impresa sponsor se inerenti alla propria attività, anche solo in via indiretta, in base alla nuova declinazione qualitativa del concetto di inerenza; il tutto, senza che vi osti lo svolgimento degli eventi sponsorizzati all’estero sia per la visibilità internazionale degli stessi sia poiché tale scelta rientra nella libertà di iniziativa economica. Lo ha affermato la Corte di cassazione, sezione V, con l’ordinanza numero 30024 del 26 ottobre del 2021, superando quella concezione oramai risalente dell’inerenza c.d. quantitativa e abbracciando invece la nuova visione.

Con riguardo ai costi di sponsorizzazione, ha rimarcato la Corte, essi «sono deducibili dal reddito di impresa ove risultino inerenti all’attività della stessa, anche in via indiretta, potenziale o in proiezione futura, esclusa ogni valutazione in termini di utilità o vantaggio». Una società, al fine di reclamizzare un marchio di cui era anch’essa titolare, aveva stipulato un contratto di sponsorizzazione affinché venisse esposto in occasione di gare automobilistiche.

A fronte dei costi sostenuti l’Agenzia delle entrate, sulla scorta di una serie di valutazioni, ne contestava la deducibilità per difetto di inerenza ritenendoli in sostanza antieconomici rispetto ai ricavi conseguiti. A seguito di ricorso promosso da parte pubblica, i giudici della Suprema corte hanno sì premesso come l’impugnazione fosse inaMmissibile poiché la ricostruzione fattuale operata dai giudici di seconde cure non era scrutinabile in sede di legittimità, ma ne hanno comunque condiviso il merito.

In particolare, la pronuncia evidenzia che le prestazioni di sponsorizzazione erano state documentate dalla contribuente anche a mezzo di fatture e fotografie; che i costi erano inerenti alla sua attività imprenditoriale anche in virtù degli «importanti elementi di visibilità» di cui avrebbe goduto ex contractu; che la diminuzione del fatturato evidenziata era invece dovuta alla notoria crisi economica; e che, non da ultimo, la tenuta delle gare all’estero non incideva rientrando tale scelta nella libera iniziativa economica e comunque risultando potenzialmente vantaggiosa in termini di pubblicità indiretta.
Alla luce di queste considerazioni, la Corte di cassazione ha dichiarato l’illegittimità della contestazione erariale, con un’importante condanna alle spese di giudizio. 

 

Residenza estera, a 360° esame della natura fittizia

 presunta natura fi ttizia della residenza fiscale estera di una persona fi sica richiede una valutazione omnicomprensiva che, in quanto tale, non può prescindere anche da un approfondito esame delle circostanze ed elementi addotti dal contribuente. La Cassazione, con le sentenze 7621, 7622 e 7623 del 18/3/2021, ha stabilito che il giudice del rinvio avrebbe dovuto esplicitare per quali ragioni non si ravvisassero interessi di parte privata nello Stato estero, pena il vizio di motivazione.

Nella fattispecie, seppur incidentalmente, si trattava di stabilire se la residenza fi scale fosse riconducibile in Italia ovvero nel Regno Unito prim’ancora di disquisire sull’applicabilità della convenzione siglata tra i due stati. La Corte, premettendo come nel caso di specie non operasse la presunzione legale relativa ex art. 2 del Tuir, ha precisato che fosse necessaria «la verifica, oltre che degli elementi indiziari relativi alla pretesa persistenza nel territorio nazionale, per la maggior parte del periodo d’imposta, della sede principale degli interessi economici e personali del contribuente, anche di quelli concernenti la pretesa natura meramente formale e sostanzialmente fittizia del trasferimento degli stessi in Inghilterra». Censurando l’operato della Ctr, ha rilevato come la medesima si fosse soffermata sugli elementi addotti dall’ufficio, senza considerare le altrettante risultanze da cui poteva inferirsi la residenza fi scale del contribuente nel Regno Unito.

Prescindendo dall’iscrizione all’Aire, come da orientamento consolidato, ha rilevato che, nel rispetto del principio cardine dell’autosufficienza, la linea difensiva fosse supportata da una serie di circostanze ed annessa documentazione, tutte dotate di potenziale rilievo. Nel dettaglio: trasferimenti anagrafi ci del contribuente in Inghilterra, comunicazioni pervenute alle autorità britanniche, cittadinanza inglese acquisita, per non parlare dell’omessa considerazione sulla permanenza nel Regno Unito dei suoi fi gli a dimostrazione della presenza di relazioni personali in loco. In ragione di ciò la Ctr, in nuova composizione, sarà chiamata ad una disamina logico-giuridica del relativo quadro nel suo complesso.

 

Società di comodo, test ko causa difficoltà oggettive

In tema di società di comodo, il c.d. test di operatività ex art. 30, c. 1, della legge 724/1994 non si applica laddove la contribuente dimostri la sussistenza di oggettive condizioni non ascrivibili a sue scelte imprenditoriali erronee tali da impedire il raggiungimento delle soglie minime prestabilite, come nel caso di inadempienze contrattuali della società fornitrice e difficoltà oggettivamente riscontrabili. In tal caso, è preclusa la possibilità di accertare un maggior reddito presunto sulla scorta del criterio matematico previsto dalla normativa di riferimento.

Così la pronuncia n. 14750 del 27/5/2021 con cui la Cassazione, sez. V, confermando le risultanze cui era pervenuta la Ctr Sardegna, ha statuito che il fallimento della società che forniva alla contribuente lo strumento indispensabile per mantenere un elevato standard di produttività e qualità (nella fattispecie trattavasi di un tunnel di sterilizzazione per il settore alimentare) costituisce un’oggettiva situazione di carattere straordinario che non può consentire di raggiungere le soglie previste dal c.d. test di operatività. Di conseguenza, «Il sostanziale mancato avvio della produzione non è, dunque, riconducibile a erronee strategie imprenditoriali della contribuente».

A tal riguardo il collegio di legittimità, ripercorrendo i tratti salienti della disciplina approntata sino ad oggi dal legislatore e richiamando la disquisizione sorta in dottrina sulla natura ad essa attribuibile (elusiva, evasiva o addirittura ibrida), ha verificato se nella fattispecie di causa, dopo il fallimento del c.d. test di operatività, quantomeno fossero integrate quelle condizioni oggettive, anche di carattere straordinario nella versione ratione temporis, necessarie per dribblare la redditività stimata dall’uffi cio. Ebbene, rammentando che l’esimente in parola può ravvisarsi nel caso di assenza di autorizzazioni amministrative ovvero per crisi del settore o ancora nell’ipotesi si svolgimento di mera attività di ricerca, la Corte ha preso atto che sia le inadempienze contrattuali della società fornitrice, sia lo sforzo produttivo dimostrato dalla contribuente e, non da ultimo, le difficoltà persistenti integrano senz’altro le condizioni oggettive richieste dalla legge, respingendo così le doglianze del patrono erariale. Degna di nota la pronuncia di condanna alle spese inflitta all’Agenzia ex art. 385 cpc in virtù del principio della soccombenza.

 

L’ufficio si contraddice: perde causa e paga spese

L’ufficio si contraddice e perde la causa, venendo anche condannato a rifondere le spese. E’ la vicenda che fa da sfondo malla pronuncia della Cassazione n. 22335 del 5 agosto 2021.

Sotto i riflettori la metodologia di accertamento sintetico ex art. 38, c. 4 e 5, del dpr 600/1973, in merito alla quale la presenza dei cosiddetti beni indice di capacità contributiva non basta da sola a sorreggere la ricostruzione reddituale, e quindi la pretesa erariale, se la contribuente riesce a giustificare le spese sostenute, oggetto di contestazione. La Corte, ripercorrendo le risultanze istruttorie acquisite dalla Ctr Puglia, ha statuito che, indipendentemente dalla natura attribuibile all’accertamento da redditometro, e su cui l’ufficio insisteva invocando la valenza di presunzione legale, agli atti era stato di contro dimostrato come le spese contestate oltre ad essere di modesta entità risultassero del tutto compatibili sia con il reddito della contribuente sia con gli apporti elargiti dai propri genitori oltre che con un’indennità percepita marito che non poteva non includersi nella propria capacità reddituale in quanto senz’altro appartenente al suo nucleo familiare. Dal canto suo l’amministrazione finanziaria, al di là di generiche doglianze mosse in riferimento alle prove addotte dalla contribuente, non era riuscita in alcun modo a confutare specificamente quanto invece comprovato e documentato dalla parte. Risultando peraltro su un punto nevralgico del tutto contraddittoria: difatti, nel contestare l’importo che era stato sborsato per l’acquisto dell’autovettura, al contempo la medesima affermava che esso risultava «compatibile con la disponibilità di denaro presente sul conto corrente cointestato con il coniuge». In tal modo, quell’elemento che l’amministrazione finanziaria aveva posto a fondamento dell’accertamento veniva inficiato dalla medesima, ammettendo così la piena sostenibilità della spesa in questione da parte della contribuente. Morale: causa persa e ufficio condannato alla refusione delle spese di lite in ossequio al criterio della soccombenza